Magnificat anima mea Dominum
La Parrocchia di Danta di Cadore annuncia la morte di
don Luigino Doriguzzi Bozzo
Figlio di questa comunità, ha servito il Signore e la Chiesa
nella Società salesiana di San Giovanni Bosco.
I funerali si celebreranno ogg giovedì 16 ottobre alle ore 15,00
nella Chiesa parrocchiale di Danta di Cadore.
Il suo corpo riposerà nella Cappella del cimitero in attesa della Risurrezione, insieme ai sacerdoti che gli sono stati accanto nella sua formazione umana e cristiana.
òòò
“Morire è socchiudere la porta di casa e dire a Dio: eccomi qui, sono arrivato”.
Questo pensiero di Don Quadrio si attaglia con puntuale esattezza a Don Luigi Doriguzzi Bozzo, scomparso nella notte sul 14 ottobre scorso, a Mestre, nella casa di riposo dei sacerdoti salesiani.
Perché il salesiano Don Luigino, da prete severo e da uomo probo, si era ben preparato a dire eccomi qua, sono arrivato, era pronto a fare il suo ultimo viaggio per restare sempre a Danta dove era nato 86 anni fa e dove ora riposa in una cappella insieme agli altri sacerdoti che qui furono parroci e maestri di vita.
Lui ha magistralmente esercitato queste missioni pastorali lasciando un patrimonio morale, intellettuale e affettivo che non ha bisogno di aggettivazioni da elogio funebre.
Basti pensare che il sacerdozio per lui era iniziato soltanto nella piena maturità, a cinquant’anni, dopo un lungo, virtuoso cammino fatto di esperienze, anche drammatiche, quelle comuni a tanti uomini della sua età travolti nell’immane tragedia della guerra, che certamente aveva segnato il suo stile di vita. Ma non ne parlava quasi mai.
Ufficiale dei Bersaglieri, l’8 settembre del 1943 era al comando di alcune postazioni di mitragliatrici nei paraggi di Fortezza. Circondato dai tedeschi imbestialiti più che mai per l’estemporaneo armistizio, volendo evitare un massacro dei suoi soldati si arrese e fu deportato nei campi di concentramento più terribili, quelli dei militari che si ostinavano a rifiutare la collaborazione con le forze armate naziste. Fu un’autentica via crucis dalla quale uscirono vivi solo i più forti, sia spiritualmente che fisicamente, e forse fu in quel tempo che avvertì latente e potente la chiamata al sovrannaturale. Quando, quasi irriconoscibile, nel giugno del 1945 tornò a Danta, dopo aver riabbracciato i genitori che ormai credevano di averlo perso nell’immane falò della guerra, si mise a studiare per concludere gli studi universitari interrotti dalla cartolina precetto e si laureò brillantemente in ingegneria meccanica al Politecnico di Milano.
Poi, ecco la vita del dopoguerra. Un dopoguerra arruffato, dolente ma scoppiettante di iniziative, oggi inimmaginabili, per ricostruire il tessuto sociale di un’Italia a brandelli, un’Italia democratica, ma ancora bambina.
Don Luigino fu uno dei tanti protagonisti di quella esaltante stagione scandita da sacrifici e privazioni, ma anche da tante gratificazioni. Divenne un manager collaborando con Ennio e Sergio, i fratelli maggiori, ma dentro sentiva fiammeggiante un qualcosa d’indefinibile che giorno dopo giorno lo portava verso dimensioni esistenziali che nulla avevano a che fare con i lambiccati progetti di macchine, col denaro, con le banche, con l’arida filosofia del dare e dell’avere.
Non era roba per lui che pure aveva dimostrato di saper gestire con saggezza.
Diventò sacerdote salesiano e quello fu l’approdo più ambito per poter rispondere a tutto tondo alla chiamata che riecheggiava nella sua vita da tanti anni.
Fu un prete-ingegnere e mise al servizio dei salesiani il suo riconosciuto sapere scientifico e al servizio di Dio tutto se stesso, cioè la sua vita.
Quella vita che oggi si è conclusa in terra, ma continua in una dimensione celeste dalla quale, siamo certi, Don Luigino ci guarda un po’ beffardo e sornione, come a dire “occhio, ragazzi, io faccio quel che posso per voi, ma anche voi datevi da fare”.
Questo è il mio saluto per lui. Un saluto troppo confidenziale forse, ma riconoscente per le conversazioni quando s’andava sul Monte Piedo a trovare quella sua Madonnina che gli stava tanto a cuore. Erano discorsi semplici, senza elucubrazioni cerebrali, come piaceva a lui e come piace a me. Grazie Don Luigino.
Quando ritornerò a Danta il mio primo saluto sarà per te.
Fausto Pettinelli
Questo pensiero di Don Quadrio si attaglia con puntuale esattezza a Don Luigi Doriguzzi Bozzo, scomparso nella notte sul 14 ottobre scorso, a Mestre, nella casa di riposo dei sacerdoti salesiani.
Perché il salesiano Don Luigino, da prete severo e da uomo probo, si era ben preparato a dire eccomi qua, sono arrivato, era pronto a fare il suo ultimo viaggio per restare sempre a Danta dove era nato 86 anni fa e dove ora riposa in una cappella insieme agli altri sacerdoti che qui furono parroci e maestri di vita.
Lui ha magistralmente esercitato queste missioni pastorali lasciando un patrimonio morale, intellettuale e affettivo che non ha bisogno di aggettivazioni da elogio funebre.
Basti pensare che il sacerdozio per lui era iniziato soltanto nella piena maturità, a cinquant’anni, dopo un lungo, virtuoso cammino fatto di esperienze, anche drammatiche, quelle comuni a tanti uomini della sua età travolti nell’immane tragedia della guerra, che certamente aveva segnato il suo stile di vita. Ma non ne parlava quasi mai.
Ufficiale dei Bersaglieri, l’8 settembre del 1943 era al comando di alcune postazioni di mitragliatrici nei paraggi di Fortezza. Circondato dai tedeschi imbestialiti più che mai per l’estemporaneo armistizio, volendo evitare un massacro dei suoi soldati si arrese e fu deportato nei campi di concentramento più terribili, quelli dei militari che si ostinavano a rifiutare la collaborazione con le forze armate naziste. Fu un’autentica via crucis dalla quale uscirono vivi solo i più forti, sia spiritualmente che fisicamente, e forse fu in quel tempo che avvertì latente e potente la chiamata al sovrannaturale. Quando, quasi irriconoscibile, nel giugno del 1945 tornò a Danta, dopo aver riabbracciato i genitori che ormai credevano di averlo perso nell’immane falò della guerra, si mise a studiare per concludere gli studi universitari interrotti dalla cartolina precetto e si laureò brillantemente in ingegneria meccanica al Politecnico di Milano.
Poi, ecco la vita del dopoguerra. Un dopoguerra arruffato, dolente ma scoppiettante di iniziative, oggi inimmaginabili, per ricostruire il tessuto sociale di un’Italia a brandelli, un’Italia democratica, ma ancora bambina.
Don Luigino fu uno dei tanti protagonisti di quella esaltante stagione scandita da sacrifici e privazioni, ma anche da tante gratificazioni. Divenne un manager collaborando con Ennio e Sergio, i fratelli maggiori, ma dentro sentiva fiammeggiante un qualcosa d’indefinibile che giorno dopo giorno lo portava verso dimensioni esistenziali che nulla avevano a che fare con i lambiccati progetti di macchine, col denaro, con le banche, con l’arida filosofia del dare e dell’avere.
Non era roba per lui che pure aveva dimostrato di saper gestire con saggezza.
Diventò sacerdote salesiano e quello fu l’approdo più ambito per poter rispondere a tutto tondo alla chiamata che riecheggiava nella sua vita da tanti anni.
Fu un prete-ingegnere e mise al servizio dei salesiani il suo riconosciuto sapere scientifico e al servizio di Dio tutto se stesso, cioè la sua vita.
Quella vita che oggi si è conclusa in terra, ma continua in una dimensione celeste dalla quale, siamo certi, Don Luigino ci guarda un po’ beffardo e sornione, come a dire “occhio, ragazzi, io faccio quel che posso per voi, ma anche voi datevi da fare”.
Questo è il mio saluto per lui. Un saluto troppo confidenziale forse, ma riconoscente per le conversazioni quando s’andava sul Monte Piedo a trovare quella sua Madonnina che gli stava tanto a cuore. Erano discorsi semplici, senza elucubrazioni cerebrali, come piaceva a lui e come piace a me. Grazie Don Luigino.
Quando ritornerò a Danta il mio primo saluto sarà per te.
Fausto Pettinelli