La comunità partecipa e non assiste. Così il Concilio cambiò la Messa
di Riccardo Bigi
di Riccardo Bigi
Dalla finestra della sua camera, nell’infermeria del convento francescano di Fiesole, Firenze appare lontana, sfumata nella foschia estiva. Ma l’attenzione di padre Rinaldo Falsini, uno dei più grandi liturgisti italiani, è concentrata all’interno della stanza, sui libri e le riviste accumulate sugli scaffali. In mezzo a queste carte, ci mostra quello che (si capisce dall’emozione con cui ne parla) considera un vero e proprio tesoro: i verbali della Commissione liturgica del Concilio Vaticano II che lui stesso, come membro della segreteria, ha redatto.
«Qui dentro – dice – ci sono le radici della Riforma liturgica, ci sono le fondamenta teologiche su cui si regge tutta la struttura».
Originario di Bibbiena, in Casentino, padre Falsini si è specializzato in liturgia a Parigi. All’apertura del Concilio il cardinale Ferdinando Antonelli, Segretario della Commissione liturgica, lo invitò a far parte della segreteria affidandogli, appunto, il compito di stendere i verbali. Dopo la promulgazione della Sacrosantum Concilium, la Costituzione conciliare sulla liturgia, padre Falsini fu chiamato anche a far parte del Consilium che, sulla base delle volontà espresse dal Concilio, doveva preparare il nuovo Messale, che poi fu pubblicato nel 1969 da Paolo VI. In seguito ha fatto parte dell’Ufficio liturgico della Cei, ha diretto la Rivista di pastorale liturgica, ha scritto numerosi articoli, saggi e manuali.
Cosa si ricorda del Concilio? Qual era lo spirito con cui fu portata avanti la riforma della liturgia?
«Nei padre conciliari c’era un grande entusiasmo, la sensazione di fare qualcosa di importante riavvicinando la liturgia ai fedeli, e i fedeli alla liturgia. Al di là degli aspetti formali, del modo in cui poi tutto questo si è concretizzato, l’intenzione di fondo era di riscoprire il valore teologico e pastorale della liturgia: la Chiesa, come assemblea dei fedeli, doveva tornare ad essere soggetto della celebrazione secondo l’idea che Chiesa ed eucaristia formano un binomio inscindibile. La celebrazione è l’espressione più autentica della fede, e in essa il fedele non “assiste” ma partecipa, agisce. Questa era l’idea di fondo, questa la novità più grande rispetto al passato: tutto il resto (l’uso della lingua italiana, l’altare come un’unica mensa intorno alla quale si riuniscono prete e fedeli…) deriva da quest’idea».
Come si concretizzò questa idea?
«La liturgia nata nel 1570, dopo il Concilio di Trento, era come un grande albero che ha dato molti frutti, ma che rischiava di seccarsi senza un profondo rinnovamento. Proprio a causa di questa urgenza di rinnovamento, la Riforma dovette essere rapida e radicale: e per questo trovò nella Curia romana notevoli resistenze. Ci fu, ad esempio, un pronunciamento piuttosto duro dei cardinali Bacci e Ottaviani».
Tra le cause delle resistenze c’era la scelta di vietare, con l’entrata in vigore del nuovo Messale, l’uso di quello precedente. Un divieto che provocò proteste e polemiche, fino allo scontro con la Fraternità sacerdotale fondata dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre…
«Lo stesso Paolo VI, per rispondere alle critiche e alle osservazioni, aggiunse all’edizione del Messale del 1970 un Proemio, in cui sottolineava l’ortodossia della riforma liturgica e la continuità rispetto alla tradizione della Chiesa. Il divieto quindi non nasceva dal considerare sbagliato, o da buttare, il vecchio Messale ma dal fatto che quel modo di celebrare non era adeguato alle finalità pastorali del Concilio. La scelta di Paolo VI non fu, come dicono alcuni, affrettata, fu sofferta e meditata: fu un gesto saggio, era la risposta da dare in quel momento al bisogno che c’era di abbeverare e nutrire la fede del popolo cristiano».
Tra coloro che hanno criticato questa scelta, c’è stato anche un certo cardinale Ratzinger…
«Prima ancora di diventare Papa, il cardinale Ratzinger si è espresso più volte sulla necessità di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del Concilio: un richiamo bello e opportuno, su cui non posso che essere d’accordo. Ratzinger ha espresso in passato anche le sue perplessità sul fatto che il Messale del 1970 fosse stato presentato come “un nuovo edificio, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia”. Su questo devo rassicurare il Papa: nessuno, né Paolo VI né i membri del Consilium avevano questa intenzione, e se è stata data questa impressione non so da cosa dipenda. Era ben chiaro, allora, il fatto che il Messale di Pio V trovava completamento in quello di Paolo VI: non ci voleva essere nessuna frattura, nessuna discontinuità rispetto alla tradizione della Chiesa. C’era solo la necessità che la liturgia non si riducesse a vuoto devozionalismo».
E il fatto che oggi, quasi quarant’anni dopo, questo divieto (già parzialmente abolito da Giovanni Paolo II) venga tolto e si possa tornare, in particolari condizioni, a usare il cosiddetto Messale di Pio V, come deve essere letto?
«Bisognerà studiare con attenzione il “Motu proprio” del Papa, le condizioni che pone, le motivazioni che ne dà. Io personalmente, ad esempio, condivido l’ammirazione per la lingua latina, anzi mi dispiace che oggi molti preti la conoscano poco, e sono d’accordo che in certe occasioni sarebbe bello usarla. Capisco anche le esigenze del Papa, che come pastore deve tener conto delle esigenze universali della Chiesa e quindi anche di quei gruppi, quelle comunità che trovano nel Messale di Pio V il modo di esprimere la loro fede. Ma mi sembra importante – e non credo che questa sia la volontà del Papa – non contraddire lo spirito del Concilio, che trovava nella Riforma liturgica l’espressione più profonda della teologia conciliare».
Una delle accuse che vengono fatte alla Riforma Liturgica è che ad essa siano state date a volte interpretazioni troppo larghe, dando vite a liturgie poco uniformi. Cosa risponde?
«Che ci siano stati casi simili, è possibile: e in casi come questi è necessaria una correzione. Ma queste interpretazioni distorte non possono certo essere imputate al Messale di Paolo VI».
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